Essere scrittori è un modo di relazionarsi con il mondo

In questo momento nella mia testa si sta svolgendo un dramma shakespeariano.

Una tragedia, uno sdilinquirsi di pensieri in lotta tra loro per la sopravvivenza. Giocano a chi è il più bravo a resistere. La loro cifra stilistica è la contraddizione. E l’arroganza.

Sono triste ma non so perché. Ho pensato: tu sei una scrittrice. Ho passato più tempo a lottare contro questo nome che ad accettarne la presenza. Io sono una scrittrice nel senso meno letterale del termine. All’atto pratico scrivo pochissimo. “Io sono una scrittrice” è il modo con cui definisco la mia relazione con il mondo. Per me esso è un libro da leggere, e ogni persona un romanzo. Stando così le cose, ogni scrittore è un alienato. Lo scrittore ha a che fare con odori, gusti, sapori, sudore, silenzi ma pretende di ridurre tutto in parole e ha principalmente interesse verso tre atti: l’atto della comunicazione, dell’interpretazione e l’atto della trasformazione. Tutti e tre gli atti sono collegati e corrispondono alla fasi di lettura, scrittura e interpretazione critica (non in quest’ordine però).

Sono una scrittrice ma non me ne vanto. Gli altri scrittori li osservo con un atteggiamento tra lo sconcerto, l’ammirazione e il distacco. Non vorrei essere un’alienata come loro. Vorrei possederne il genio, non la maledizione. Essere il genio immaledetto. Scrivere restando una donna di mondo, senza la sensibilità al dolore e all’amore. Possiedo, invece, la maledizione della scrittrice, senza i suoi eccessi e soprattutto senza alcun talento. Mi rendo conto di combattere contro me stessa in quanto scrittrice perché è l’unico modo che ho di non scrivere e accorgermi, di conseguenza, di non essere all’altezza del compito.

Scrivendo sto male, ma senza scrivere sto peggio. E’ come avere la vocazione al canto, ma senza il talento dell’intonazione.

La mia maledizione è questo turbinio incessante di emozioni, mai quiete. La necessità di esprimerle e riversarle nella vita reale mi oltrepassa. Oltrepassa anche le persone e annienta ogni mia possibilità di entrare in contatto con le altre donne in modo equilibrato. Come un’alluvione vorrei invadere la terra di lacrime e senza per questo sentirmi dire di essere una persona dallo stampo “leopardiano”.

Ad oggi, questa pioggia irrora solo le mie guance e inonda un cuore già zuppo.

Scrivendo sto male, ma senza scrivere sto peggio. E’ come avere la vocazione al canto, ma senza il talento dell’intonazione.

S.S.

Sulle donne che amano altre donne ma evitano le relazioni

Poco fa ho fatto un sogno bellissimo. Riguardava N., di cui ho parlato soltanto una volta, in questa intervista a me stessa. N. è entrata e uscita nella mia vita nel tempo di qualche settimana, lasciando però in me un ricordo durevole e, all’epoca, aprendo una ferita significativa. Nel gergo, è stato quello che si dice un “colpo di fulmine”: ma non sono stata mai ricambiata. N. aveva nella testa questa idea di lasciare tutto così com’era, dal momento che avrebbe dovuto restare sola e dedicarsi a se stessa. Da altre l’ho sentito dire troppe volte per crederci.

Le persone non sanno cosa davvero vogliono, e per descrivere cosa provano utilizzano forme razionali inesatte. Una di queste è proprio la formula dell’imparare a stare da sola. Un rigido precetto che però nasconde soltanto la paura di amare e essere amata. Stiamo soli perché lo decide la vita, perché il nostro cuore non è pronto ad accogliere dei sentimenti o è invaso da emozioni che non riesce a restituire all’esterno. Siamo soli perché non ci innamoriamo, perché abbiamo amato troppo in passato, perché abbiamo vissuto a lungo relazioni tossiche, che ci hanno tolto l’aria. Io non sono sola per scelta, e lo sono da molto tempo. Lo sono stata anche quando frequentavo delle ragazze che non mi piacevano abbastanza.

Non so perché N. fosse sola o mi dicesse di voler stare sola, ma nell’unica notte in cui abbiamo dormito abbracciate insieme io non mi ci sono sentita. Nel mio sogno eravamo ancora lì: è triste svegliarsi e prendere coscienza della fuggevolezza di un momento tanto bello. Mi ha lasciato una traccia di dolcezza, come il miele quando ti rimane appiccicato al palato. Il nostro presente diventa subito passato, non appena hai detto “è”. “Solo i ricordi restano per sempre”, scrissi una volta questo verso. E poi resti tu. Di solito riesco a guardare le foto delle mie ex, o delle ragazze con cui sono stata anche solo per breve tempo: nel suo caso no. Ha degli occhi troppo dolci e profondi perché non mi tocchino, nemmeno attraverso un fotogramma lontanissimo. Ha mani calde. Ricordo di tenerle nelle mie al sushi, alla fine della cena, al tramonto di noi. Fa sempre male, come la prima – e ultima – volta che mi disse “dobbiamo finirla qui”. La maggior parte delle persone non riesce a scalfire questa corazza, lei no. Non l’aveva fatto apposta: voleva solo giocare, e il gioco le è sfuggito di mano.

Sono stanca, anche oggi, delle persone che passano ma non si arrischiano a dire “io resto”. Stanca di non potermi legare a nessuna, perché nessuna ha voglia di sperimentare la libertà all’interno di una relazione. E sono stanca, infine, che dopo una certa età la parola “amore” diventi per tutte una sorta di Babbo natale, una favola della buonanotte che in questa realtà non ha consistenza. Non credo all’amore perché voglio, ma perché devo: è l’amore l’essenza stessa della vita, lo spirito guida dell’esistenza. Una landa di vuota banalità si stende al di fuori dell’amore, per chi decide di vivere all’insegna del non-amore. Uno scansamento sistematico dell’impegno che ti getta nel consumismo delle emozioni. E si credono pure delle outsider.

Sono partita da N., arrivo a me. N. ha la qualità della chitarra, io della scrittura. Non è semplice amare me stessa: amo la musica. La scrittura mi mette pressione, mi fa sentire inadatta, mette allo scoperto le mie fragilità. Non ti svuota mai, la scrittura: al contrario. Le parole si creano continuamente, una dopo l’altra, e danno l’impressione di non farti fare un solo passo in avanti. Vivo costantemente nella rievocazione del passato: è questa la scrittura. Un pensiero scritto è un pensiero passato, è la negazione dell’azione, la scrittura. Lei perpetua: mi blocca la dimenticanza. Non riesco a dimenticare niente e nessuna, io soffro sempre. Altrimenti di che scriverei? Il mio dolore è l’oggetto stesso della mia indagine introspettiva. Sono fatta così. Non so cos’altro fare. Non so fare altro.

lesbiche che si abbracciano
Foto di S. B. da Pixabay

E., due anni dopo

Domani ricorre il secondo anno del mio primo appuntamento con Eugenia, che in questo diario è sempre stata chiamata solo E. [per la lettrice o il lettore che arrivasse adesso, alla fine del pezzo di oggi ho lasciato tutti i riferimenti per recuperare la “saga” di E., risalente appunto al 2020]. Non è stata una frequentazione lunga ma nemmeno una passeggiata di salute. Posso dire di essermi innamorata profondamente di lei come non mi era mai accaduto prima, non in quel modo almeno: però, frattanto che io maturavo il mio sentimento e ne acquisivo la consapevolezza, vincendo la (tanta) paura di amare, lei si è disinnamorata di me.

Il nostro rapporto era fondato su una incredibile capacità di connetterci, comprenderci l’un l’altra. Lei non era che la persona che avrei voluto accanto a me sempre: mi faceva scoprire il mondo da prospettive nuove, mi ascoltava leggere, mi “sentiva”. Eugenia era semplicemente fantastica. Dopo due anni mi rendo conto di non aver mai conosciuto nessuna come lei. Quando c’è stato lo strappo, l’ho capito. Anche se non ero davvero preparata a questo devastante stillicidio che sono stati gli ultimi due anni. Non lo sei mai, a lasciare la persona che sembrava combaciare con il tuo sogno più alto di aver finalmente trovato un’anima affine a te. Lei è stata l’Abbandono per eccellenza: l’esperienza più felice e più terrificante. E se è vero che l’amore ti fa sentire le farfalle nello stomaco, il suo improvviso, inaspettato abbandono ti può intossicare. All’inizio hai la “botta” che ti costringe le giornate in camera a piangere (io ho fatto tre mesi così…), poi stai meglio, o meglio inizi a reggerti in piedi, a uscire dalla camera, a piangere un paio d’ore al giorno anziché otto, e magari ti cerchi un lavoro e piano piano ricominci con la tua vita. Ma poi continua! Continua! Non ne sei fuori nemmeno quando pensi di esserlo, ad esempio nemmeno dopo due anni. Oggi ho avuto la furba idea di riascoltare un suo vocale, rileggere vecchi messaggi, riguardare vecchie foto e infine di ricercarla su Instagram. Come se non bastasse, ho saputo che è tornata nella mia città nel weekend. Non mi ha cercata, la stronza. Eugenia non ha mai chiesto scusa. Può scusarsi una persona di averti illusa? Avrei la coda di gente, ora, fuori casa.

Tutte queste “furbe idee” mi hanno fatto scoprire che le ferite si possono riaprire, eccome. Come se il tempo non fosse passato. Peggio. Vivo in un costante presente caratterizzato dalla solitudine. Non ho paura a dirlo. Probabilmente nessuna delle persone che mi ha abbandonata come una l’ultima merda pestata, dopo avermi succhiato il midollo ovviamente, dopo avermi osannata, portata su un palmo, baciata, sco**ta (vabbè), sfruttata nella sensibilità, ecco nessuna di queste donne con la d minuscola ora soffre, nemmeno lontanamente, la mia stessa condizione. Non so se si piacciono guardandosi allo specchio. Io tremo dal terrore di rimanere sola per sempre, la solitudine – quella vera – di non essere mai “vista” veramente da nessuno, però allo specchio mi ci guardo. Mi cerco. Ogni giorno mi chiedo: è questa la vita che voglio? La posso cambiare. Sì. Un processo che parte anche dall’introspezione. La potenza del pensiero. Qualcosa può cambiare attorno a me in modo imprevedibile se oso spostare anche solo un granellino di sabbia, mi dico. E tutto ciò che ora mi sembra (e lo è…) sconosciuto, freddo, distante – come il nuovo ambiente di lavoro – domani sarà conosciuto, caldo, vicino. Resisto, giorno dopo giorno, con un cuore forte. Le lacrime saranno l’olio del motore di questo cuore che batte.

PLAYLIST DEL CUORE*

Lettore di vinili
Foto di StockSnap da Pixabay

* trattasi delle pagine scritte su E. all’interno di questo blog disposte in ordine cronologico

Il ruolo ancillare della scrittura contemporanea

Parliamo un po’ di scrittura, oggi. Anzitutto, che attualmente la scrittura sia un’arte ridotta a un ruolo ancillare è cosa evidente e sotto gli occhi di tutti. Dunque, voi che leggete i blogger rappresentate per me una piccola nicchia di eroi, alla stregua dei Trecento spartani alle Termopili. In Italia abbiamo più scrittori, in canna, cannati, cannoni (fate vobis) che lettori, e immagino lo stesso si possa dire un po’ di tutto il mondo: sentitevi pure parte di una schiera di eletti, in cui io stessa fatico ad annoverarmi. Per dire: ieri mi hanno chiesto qual è l’ultimo libro letto e ho risposto “Istituzioni e mercati finanziari”. Letto solo per le prime dieci pagine per giunta, non per diletto personale ma per desiderio di avanzare nella mia professione. Ogni sera la lotta tra lo smartphone e il libro la vince lo smartphone, l’articolo giornalistico sullo smartphone al massimo.

Cosa intendo per “ruolo ancillare”? Facile a dirsi, più complesso da esplicare. Inizierei da questo presupposto: la scrittura come pura arte, sola, chiusa in sè (intrattenimento, riflessione, testimonianza…) non è quasi più un fatto di massa. Lo è stata con il libro di carta, al momento del suo massimo sviluppo uno-due secoli fa, ma ora si appresta a diventare sempre più una scrittura “a servizio di…”, uno script-ura, proprio nello stesso momento in cui anche il supporto che l’ha portata ai suoi massimi splendori, il libro di carta (dico solo che se non fosse stato per il libro cartaceo non sarebbe mai nato il romanzo) viene soppiantato da altri mezzi di comunicazione e deposito della conoscenza, più potenti, più tecnologici. Inoltre, tale evoluzione del mezzo comporta una perdita per la scrittura stessa, dal momento che mezzo e contenuto sono strettamente collegati. Lo dice la parola stessa scrittura, che presuppone, insito nella sua stessa radice, l’essere parola “che viene scritta su”. Possiamo dire che la scrittura su un foglio sia la stessa su un blog?

Ma anche il blog è ormai cosa vecchia, non più letta. Qualunque tentativo, infatti, di perpetuare la scrittura come arte pura che riesce a sostenersi sulle proprie gambe da sola e a entrare nella mente di una grande massa di persone, variando il mezzo, si sta rivelando un insuccesso. Prendete un romanzo, un saggio, un articolo, che lo si legga su uno smartphone, un tablet, un kobo, sì, varierà la vostra esperienza di lettura (marginalmente) ma resterà un fatto indiscutibile: la scrittura fatta per essere letta, la lettoscrittura, viene letta da un sempre minor numero di persone. Sta scomparendo, sta divenendo elitaria. Fa eccezione soltanto, io credo, la scrittura di utilità, dal libretto delle istruzioni al libro scolastico. Ma è sempre, ecco, una scrittura di servizio che scompare dietro al fine: non è la scrittura intesa come arte.

La scrittura intesa come arte sopravvive soltanto quando ha un ruolo ancillare, da serva. Serve come base per il podcast, per il video su youtuber, per la pellicola televisiva o cinematografica, per la canzone. La udirai, quasi la “vedrai”, supportata sempre di più da immagini accattivanti e illustrazioni, ma sempre più raramente la leggerai. Figuriamoci a lungo.

macchina da scrivere
Foto di Libel SanRo da Pixabay

Eri tu la mia pace e la mia guerra

gatto sul tetto
Foto di Quang Le da Pixabay

Emanuela è una ragazza che ho conosciuto mentre scrivevo la tesi in Lettere. Eravamo costretti nelle nostre abitazioni a causa del Covid, con la Lombardia in zona rossa da mesi, ma la clausura e sedentarietà per me erano doppie: alla tesi sopracitata, infatti, si aggiungeva il mio lavoro estenuante come PR. Nonostante il lavoro, tutto il giorno pensavo alla tesi. Di quel periodo ho anche il ricordo di una collega: mi tormentava sin dalle prime ore del mattino, quando, con chirurgica perfidia, schiacciava sul tasto “chiama” di Teams per parlarmi delle uscite stampa del giorno che, a detta sua, avrei dovuto selezionare.  Prediligeva quasi sempre articoli del Sole24Ore o di Milano Finanza: le piacevano se nel titolo riportavano le parole “cybersecurity” o “business”, diversamente li rileggeva con voce sommessa ed incerta sul da farsi. Al primo “migranti” o “dibattito parlamentare” erano scartati senza pietà. Dopo tre mesi, l’avevo ascoltata così tanto, e con così tanta pena, che riuscivo ad indovinare i suoi pensieri ancora prima che li esprimesse a voce alta. Delle volte la poveretta se la prendeva con me, per un evidente colpo di calore: non sopportava infatti per nulla la luce del sole e tendeva a uscire di casa soltanto dopo le 17. Chiuso il computer a fine giornata, nella speranza di non ricevere più richieste di lavoro, aprivo i libri universitari sull’Accademia dell’Arcadia, e mi mettevo a elucubrare nuove e memorabili pagine di critica letteraria (che io non sia ancora celebre per esse, è un mistero). Emanuela si infilò lì, tra la collega vampira e il mio desiderio di diventare la nuova De Sanctis. L’avevo incrociata nell’unico luogo in cui si poteva ancora socializzare: Tinder. Non proprio sotto la Torre di Pisa o lungo un canale veneziano ma… non avevo di che lamentarmi: il suo profilo era ben fatto. Si articolava in sei foto: un cane di razza, una elegante bicicletta da discount, fotografata davanti al Duomo di Milano, una macchina fotografica accanto a una Moleskine nera, un lettore per vinili dall’aspetto vintage e, infine, il suo viso sorridente. Il tutto a corredo di una arzigogolata ma dettagliata descrizione di sé e un nome fittizio alquanto malinconico, coincidente con la sua stagione preferita. L’Autunno.     

Autunno si dimostrò, da subito, una persona aperta al dialogo. La nostra prima conversazione ruotò attorno alle cause che l’avevano spinta a selezionare le sei foto: io avevo – ed ho tutt’ora, devo confessare, mio malgrado – una particolare inclinazione alla curiosità, insomma, in parole ben poco letterarie e ben poco auliche, tendo a ficcare il naso negli affari altrui autocompiacendomene. E con arguzia, anche. Ma, il più delle volte, è lo spirito della provocazione a guidare le mie esplorazioni. Emanuela non ebbe molto a gradire questo mio atteggiamento e poco ci mancò che mi mandasse al diavolo. L’avevo pungolata sul fatto che lei frequentasse una università privata a Milano. Un fatto non così eloquente se preso da solo, o non abbastanza per formulare un giudizio, ma che, unito alla Moleskine in bella vista e al cane di razza, mi fecero azzardare l’ipotesi di una sua appartenenza al ceto sociale medio-alto della Milano bene. Non aveva il viso da milanese, però. Ma, se lei fosse stata la solita siciliana, magari catanese, trapiantata a Milano che mi ritrovavo a conoscere, quelle sei foto troppo perfette avrebbero forse rivelato una grande paura di non essere apprezzata e una grande insicurezza. Sì, mi confermò, era proprio di Catania, trasferita a Milano per lavoro – insegnare matematica in una scuola media – e no, la mia associazione “università privata – Moleskine – cane di razza – classe medio-alta” era errata e grossolana, degna di una persona superficiale quale mi stavo dimostrando. Devo qui precisare per evitare fraintendimenti che per classe medio-alta non intendo una classe sociale capace di distinguersi per reddito, dal momento che ora gli stipendi delle classi borghesi sono quasi tutti livellati, sovente verso il basso. Oramai vi è una sproporzione tra i ricchi e i poveri, i quali hanno per vizio di pretendere dei sussidi dallo Stato per potersi cibare o pagare l’affitto. Da ultimo queste sanguisughe godono, anche se si pensa per poco, del reddito di cittadinanza. Dicevo, ai giorni nostri strumento di distinzione all’interno della classe media è la cultura: per essi Charles Bukowski ha sostituito Che Guevara. Ma ecco, riprendendo il filo del discorso su Emanuela, la mia provocazione aveva destato il suo interesse nei miei confronti. Abbiamo così continuato a parlare, tra battute goderecce e reciproche reprimende.

Anche stamattina (che albeggiava) ho pensato ad Emanuela e ho ripercorso con la mente tutto il nostro percorso accidentato, già segnato in principio dal fallimento, in cui i dialoghi erano brevi momenti d’armistizio, arcobaleni fugaci, intervallati da assai più ampi periodi di guerra e incomprensione. Ma la guerra preludeva inevitabilmente all’intesa paradisiaca, così come la miccia precede e costituisce il fuoco. L’ho ricordata sopra di me, che godeva: ho goduto, a mia volta, a quell’immagine nella mia memoria, fino poi a scoppiare in un pianto disperato. Perché è senza speranza il mio desiderio di riaverla qui ancora, come un tempo, avviluppata a me, e io a lei, come compagne necessarie mentre fuori incombe la tempesta. E se non vi era pace alcuna che durasse in un rapporto del genere, è pur vero che il nostro rappresentava un’oasi di nutrimento in mezzo a un deserto asfissiante, monotematico e ossessivo, incentrato sul concetto di malattia. Io e Manu, un tu ed io attorno ad un volersi lacerante, incomprensibile e quasi odioso nei suoi presupposti, mescolavamo i nostri liquidi, non temevamo le nostre salive e abbiamo gioito moltissimo dall’intrecciarsi dei nostri corpi. Tutto ciò frattanto che programmi televisivi di serie b inveivano di limitare, se non eliminare, i rapporti sessuali, specie se tra sconosciuti. Ricordo con molta nostalgia il nostro primo incontro.

È avvenuto a casa mia.

I suoi occhi mi fissavano dall’altro lato del letto. È piccolo, è stretto. È il mio letto, Manu, sono una persona sola. Però di notte abbracci il cuscino per addormentarti. È vero, perché ho bisogno di simulare una presenza. Stasera abbraccio te. Ne avevamo bisogno tutte e due: una di fronte all’altra abbiamo iniziato a mandare al diavolo i precetti di Speranza e Crisanti. Durante la dittatura sanitaria non si può amare. Non ci è concesso per un paio d’anni, fino alla vaccinazione di massa. Me ne frego della dittatura sanitaria. Me ne frego, se ci sei tu accanto a me. Ho i brividi Manu, non riesco a non tremare mentre mi tocchi. Non mi tocca mai nessuno, lo sai. Sei così dolce, ma non mi baciare. Avvampo tra le gambe ma non infilerò una parte di me in te. Resisterò come i partigiani per poterti abbracciare. Io resterei così per sempre. È una miccia, non ti illudere, gli abbracci precedono sempre qualcosa d’altro e non sono fatti per durare. Sento di non riuscire più a comandarmi oltre, sento che il desiderio di te si espande. Manu ha due occhi grandi, generosi, ma quando li strizza le mutano il volto e rivelano una personalità complessa. La sua molle sensibilità e le sue sensuali pignolerie si riverberano in una bocca stretta, asciutta, da cui fuoriescono le stesse parole amare e dolcissime. Hai una bocca severa, forse è per questo che vorrei baciarla così intensamente. No, non baciare altrimenti interrompi l’abbraccio. Le ho promesso silenziosamente che non avremmo concluso la serata nel solito modo. Io non capivo nulla e così l’ho baciata. Interi mondi si sono schiusi in quella bocca caldissima: tanto stretto e asciutto appariva l’antro, quanto più bagnato e ampio era il tempio che custodiva. Ho tremato, lo ammetto, ho tremato in ogni angolo del mio labbro, come non mi accadeva da tempo. Stavo penetrando uno spazio sacro e inviolato, lo spazio del suo desiderio.   

E il mio. Non bacerò mai più una bocca così, no, non mi sarà di nuovo concessa l’entrata nel tempio inviolato. Io non ho templi presso questi lembi di carne vogliosa e ansimante, ma semmai colonne prive di capitello sostenenti il cielo azzurro, come nei siti archeologici in Grecia e nel sud Italia. Proprio a Catania era dimorata una parte del mio cuore e avevo perso un pezzo del mio cervello. La mia santità era a brandelli, perciò suggevo dalla sua per ripristinarla. Tornare alla verginità, essere eletta a sua devota discepola, aspra maestra e amante tenera al tempo stesso. Ho desiderato un “noi” quando si è staccata da me, come ci si mette alla ricerca di un tesoro dal momento che è nascosto agli occhi, dopo essere stata immersa nella conoscenza di un tu, nell’eco di un io. Tu ed io. Ancora, ancora e ancora potrai chiaramente udirlo in un anfratto del nostro ricordo. Resuscitarlo tra queste parole, sulle macerie.

Prego di rincontrarti. Il tempo sia dannato perché mi ha allontanata da te. Il tempo sgualcisce le lenzuola più candide e belle, ne rivela gli aloni di sporco nascosti, porta alla luce le ombre e mette in ombra fulgidi diamanti. Scovami nel vento che un giorno ti ha lambito i fianchi, un istante, a Catania. Io non sono niente, come l’aria. Ma anche l’aria ha un peso. Anche l’aria ha una sostanza. Rincontrerò un po’ di te in un’altra donna, che forse mi amerà e saprà guardare oltre questo specchio opaco, frutto di una madre impazzita e di un padre tiranno. Un’arpia e un Minosse: io l’Arianna che attende invano il suo Teseo. Il pensiero di un’altra donna, di un altro amore mi distrugge, mi piega, mi divora, mi fa in mille pezzi. Questo tu che risuona, tu, tu, tu, tu, e il ricordo, ancora ancora ancora, delle tue mani tra le mie, del tuo grido in ginocchio, mentre ti toccavo. La tua sagoma, illuminata dalla lampadina del comodino, il tuo seno profumato davanti ai miei occhi, come un bouquet da sposa, anche oggi sono pezzi di ghiaccio che ovunque si conficcano. Nella tua essenza, non ti rincontrerò più. Nemmeno voglio che accada, se mi scansi. Come abbiamo fatto ad accettare che finisse, vorrei chiederti. Non c’è pace senza guerra. Eri tu la mia pace e la mia guerra.  

Come aruspici

Mamma, tu sei così docile e indifesa, e io non ti ho mai parlato a cuore aperto.

Ho cercato a lungo, sai, ma non ho mai trovato una donna come te. Che mi parlasse e mi avvolgesse di attenzioni. Anche di questo non ti ho mai parlato. Ho sempre pensato, e lo penso tuttora, che non mi avresti capita.

Padre, tu sei stato un dittatore, ed è per questo che ora non sopporto nessuna costrizione e vado inseguendo una libertà tanto assoluta quanto irrealizzabile. Sei stato però anche un ottimo padre. Quando ero piccola, per gioco, mi sollevavi fino al soffitto. Sul palmo del tuo palmo ti ho portato: ti ho adorato, ti ho odiato, ti ho dato tutto immensamente.

Da voi che mi avete donato la vita ho appreso il primo dolore. Siete lo spettro dello spettro delle mie emozioni. I primi baci erano i vostri, gli unici “tesoro” che ora, da tempo, non abitano più tra noi. Ed è a voi che devo questo incolmabile debito d’amore. A voi. Solo a voi.

Non ho incoscienza dell’origine delle nostre incomprensioni. Mamma, sei stata una figlia non amata abbastanza, padre, figlio non amato per nulla. Con me avete realizzato un eccesso: troppo amata di non-amore. Soltanto in matematica, la somma di due negativi ti restituisce un risultato positivo. Come aruspici, aprite il mio costato, sgusciate nel muscolo tra un ventricolo e l’altro e leggerete questa semplice verità che io non riesco a dirvi.

“Siete lo spettro dello spettro delle mie emozioni”

#3

Ci vuole tempo, ci vuole coraggio per ammettere di essere infelici. Sei infelice? Io non ho la tua risposta. Cazzo, (senti come suona…sbagliato questo “cazzo”?) la vita ruota intorno a una questione essenziale: felicità e infelicità. Da adolescente pensavo che o eri felice o il suo contrario. Poi sono subentrate le varianti. Variante di assaporare l’infelicità tanto da avvertire che, in fondo, non lo era poi così tanto.

Provate a colorare un foglio di nero, lasciando in un angolo, intonsa, una piccola zona bianca. Immaginate che il nero sia la paviditá della routine che vi avvolge: e ora pensate di scoprire nel piccolo esergo di un romanzo un angolo di autenticità. Ogni sera vi fate trascinare in un romanzo d’avventura o osate scriverlo. Kafka era un burocrate, e ha scritto capolavori. Leopardi era uno dei più grandi poeti di tutti i tempi, ma infelice sopra tutti loro, perché la sua sottigliezza nel suo sentire oltrepassava ogni illusione, ogni orpello che la coscienza ci pone davanti per tenerci lontani dalla disperazione di essere qui, dunque destinati al non esserci.

E d’altro canto mi chiedo se alcuno sia stato mai, felice. Col senno del poi mi accorgo che, quando mi credevo felice, ero ingannata dalle mie stesse illusioni. Che se solo avessero superato la misura del plausibile sarei stata un’altra. Più infelice ma non sciocca.

Alla salute!

#2.

I nostri corpi sono veicoli spaziali che ci portano ovunque le nostre intenzioni, unite al caso, vogliano. Hanno una data di scadenza inscritta nella pelle. C’è, anche se non siamo in grado di leggerla. Rarissimi esseri umani eletti, in verità, ne hanno avuto coscienza: una coscienza così penetrante, limpida e perfetta da essere stati capaci di squarciare il velo del futuro.

Gesú Cristo, Siddharta, Dante Alighieri.

Senza l’amore perdo la capacità di connettermi con la mia parte più profonda. Come un cieco non vedo e come un sordo non sento. Sarebbe più giusto dire che l’amore non solo non é cieco, ma dona la vista.

Da un po’ di tempo le mie mani stringono silenzi. Mi ha abbandonata la speranza e brancolo in un buio accecante. Il mio veicolo spaziale fluttua, in un’incertezza priva di coordinate temporali. La sera é fresca.

Ho la sensazione che qualcosa impedisca all’amore di raggiungermi. Cupido, nei suoi mille volteggiamenti, ha perso la strada di casa. La strada verso di me. Mi ferisce la sua assenza ancora più della sua freccia. Ogni giorno lo attendo, invano.

#1.

È faticoso tornare a scrivere sul blog dopo tanti mesi di inattività, ma devo sforzarmi di farlo, per me stessa: scrivere è come meditare, e io ne ho bisogno. Dovrei ricominciare a mettere in fila i pensieri e fare bilanci, anzitutto, raccontare le cose essenziali di ciò che mi accade intorno, snocciolare i progetti per il futuro, con umiltà.

Direi di iniziare dal dato più importante, che spiega anche perché io mi sia allontanata dalle “Cartacce di Sally”: mi sono laureata, nel frattempo. Seconda laurea. Ho passato l’ultimo anno (e più) a cercare di tenermi insieme, schiacciata triangolarmente da un lato dal lavoro, dall’altro dalla tesi, e infine da una serie di disavventure sentimentali che non augurerei nemmeno al mio peggior nemico. Non è questo il momento per raccontare per filo e per segno che cosa abbiano significato gli ultimi mesi per me: è davvero troppo da esprimere. So solo che ogni sera avrei voluto tornare in questo luogo di pace per dare un senso alla mia fatica del giorno e mettere a tacere, in qualche modo, la paura di non farcela, ma semplicemente non ne avevo il tempo. Non avevo nessun minuto libero da dedicare a me stessa: quando non lavoravo dovevo studiare e viceversa. Una prova di resistenza. E di notte il riposo era sempre intervallato da risvegli notturni conditi di ansie.

Per un certo tratto di questo mio percorso ci sono state delle persone a cui confidare i pensieri. Con loro accanto sembrava più semplice. Poi mi sono ritrovata completamente sola. Da allora ho toccato con mano cosa significa poter contare soltanto sulla propria determinazione: quel che è certo è che la fiducia nel risultato non mi ha mai abbandonata. Lei, più di ogni cosa o di ogni persona di passaggio, mi ha aiutata a respingere la paura e a lavorare fino a notte inoltrata con il cuore che batteva dall’emozione. Quando mi sono laureata è stato strano, in realtà: ho provato un sentimento di gioia, ma non mi sono sentita arrivata come avrei immaginato. Sto appena iniziando a guardare dentro me stessa. Di nuovo, di nuovo, di nuovo una sola parola rimbomba nella mia mente: RICOMINCIARE. Devo smetterla di pensare al passato. Ho chiesto scusa a chi potevo, ho cercato di rimarginare le ferite come potevo, però c’è stato anche chi è rimasto indietro, lasciando un doloroso silenzio. Cerco di non ascoltare e di dare retta soltanto alla mia voce interiore, che mi dice di essere sulla strada giusta. Arriverà, un giorno… chi manca da sempre…