Gli angoli di bocca di A., il racconto di un’illusione

Sally è un po’ triste. Sally sa che va bene essere un po’ tristi in alcuni momenti della vita e che le emozioni, belle o brutte che siano, ne fanno parte.

Sally è un po’ stanca e si chiede se sta sbagliando qualcosa e cosa dovrebbe fare per cambiare il suo presente e acquistare serenità.

Lettore, voglio portarti con me, lasciati guidare nel racconto semplice della mia realtà. Credo ancora nel racconto e nel dialogo sincero tra me e te. Vorrei aiutarti con la mia esperienza ad evitare di soffrire, ma ciò non sarà possibile: piuttosto mi propongo di instaurare una salda collaborazione tra le nostre controparti. Stringiamoci in un abbraccio collettivo che sappia di umanità e ascolto.

Ore 13 del 1 gennaio 2021. La sto stringendo, A. Non parliamo. Mi protraggo verso il suo sorriso e le do cinque baci sull’angolo della bocca.

“Mi piacciono gli angoli di bocca”, le sussurro.

“Ah sì? E perché?”

“Non lo so, da sempre”, rispondo. E mento: mi piacciono gli angoli di bocca dal 2015, da quando i Negramaro sono usciti con la canzone “Attenta” che ad un certo punto fa:

Ricordati degli angoli di bocca

sono l’ultimo regalo in cui ti ho persa

Attenta, Negramaro

“Attenta” era la canzone preferita di G., una ragazza che avevo conosciuto su una chat e per cui ero andata in Sicilia. è da allora che amo gli angoli di bocca. Non potevo spiegarglielo, non volevo. Mi piaceva guardarla negli occhi, farle sbocciare un sorriso e poi baciarla, dolcemente. Erano baci bellissimi, lei mi ricambiava con altrettanti. Avevo conosciuto A. su una chat, un mese prima. Le solite chat… eravamo tutti in zona rossa, qui. Non facevo altro che lavorare e studiare e la sera scambiavo quattro chiacchiere con sconosciute o swipavo su Tinder, senza alcun intento se non distrarmi. Non ero pronta a conoscere qualcuna sul serio, era un momento troppo particolare e io non avevo tempo. A. ha iniziato subito a farmi tante domande e a dimostrare un forte interesse nei miei confronti. C’era un interesse fisico, entrambe avevamo desiderio di interrompere – fosse anche per qualche ora – il distanziamento sociale. Abbiamo iniziato a parlare e a scoprire che potevamo parlare e scriverci per moltissimo tempo, senza mai una interruzione o che subentrasse la noia, parlando anche del nulla. Quando ci siamo viste la prima volta abbiamo fatto colazione in macchina, lei davanti io sul sedile anteriore per rispettare il distanziamento. Ricordo perfettamente di aver preparato il caffè dalla moka in casa e averlo portato giù con il thermos, insieme a due cucchiaini nella pellicola e una porzione di zucchero che io avevo rovesciato ad hoc in un bicchiere. Poi due tazzine. Lei invece tre brioche calde dal panettiere, insieme alle sue occhiaie.

Ne ho un ricordo bellissimo. Dopo poco siamo salite in casa mia e abbiamo passato tutta la giornata insieme. Nessuna imperfezione. Mentre, alle cinque, si abbottonava la camicia le ho scattato sei foto, che gelosamente conservo. “Questa è la tua vera te”, le dissi, “una ragazza semplice, sorridente, buona. Sono felice di aver passato questo tempo insieme”. Forse avrei dovuto interrompere tutto in quell’istante di felicità pura, conservarmene l’illusione prima di comprenderne i contorni reali e capire che mi ero sbagliata. Ma non so come fermare la felicità, io, accontentarmi del suo culmine. Ho il dolore di credere, quando sono felice, che le persone entrino nella mia vita per restare. Lasciar nascere e crescere un sentimento, perché semplicemente dall’altra parte c’è il mio mondo incantato. Perché ci sono io, e Dio sa, solo, quanto vorrei.

Ho voluto bene così tanto. All’inizio avevo paura ma poi no, ho lasciato che accadesse. Amavo me che aprivo il mio mondo a lei, amavo i nostri corpi che si comunicavano passione, amavo condividere e veder crescere. Cos’è una frequentazione se non questo semplice condividere?

Ore 18 del 1 gennaio 2021. Lei è già uscita di casa, è andata a trovare degli amici reduci dai festeggiamenti di Capodanno. Io sto poco bene, ma non le scrivo. La mia mente corre agli istanti paralleli che le capitavano allora. Una ragazza della compagnia degli amici decide di tornare a casa. “Torno anch’io”, dice anche A.. Da questo punto in poi non posso che lavorare di fantasia. Ma questo è un racconto per cui va bene, no? A. mi aveva confidato qualche settimana prima che che aveva destato l’interesse di questa ragazza e che, nonostante il nostro rapporto, aveva intenzione di conoscerla. Solo conoscerla. diceva. Però quella stessa sera, con la pelle ancora calda dai nostri abbracci, è uscita con lei. Un buco di due ore nell’arco del tempo che non perdona. Non posso che lavorare di fantasia. E se, mentre io ero a casa sola piegata dai dolori alla pancia, lei avesse sperimentato gli angoli di bocca con lei?

Non voglio saperlo con certezza, forse non lo saprò mai, ma una parte di me già sa.

Io, da quel giorno, non l’ho più risentita.

Se avessi potuto scegliere, perché avrei dovuto scegliere di innamorarmi di donne eterosessuali? Io sono una fottuta minoranza.

Che momento discretamente difficile. Lo avverto, gravido di opportunità ma così velate di mistero che io non riesco, nemmeno affinando tutti i cinque sensi, a vedere oltre e attraverso. Ogni giorno che passa mi manca non avere una compagna, l’essere sola: nessuna che condivida i miei valori profondi, che sappia sentire il mio sentire e con cui confrontarmi. Oggi, ad esempio, ho avuto l’ennesimo bisticcio con Giulia: siamo diverse, è vero, e entrambe ci sforziamo di comprenderci e venire l’una incontro all’altra ma finiamo ciascuna per sacrificare qualcosa di essenziale di noi stesse, quando parliamo, o di negarci del tutto, quando non parliamo proprio. E spesso scegliamo la strada del silenzio perché è la più semplice. Qualche ora dopo questo bisticcio mi è capitato di leggere l’oroscopo di Rob Brezny (Maria Cristina condivide sempre il suo del segno della Vergine, io l’ho pescato da lì, dal suo Facebook…): vi ho letto una cosa interessantissima, ossia che quando io inizierò a pensare di non avere sempre ragione, riceverei benedizioni su benedizioni. Un tratto dello Scorpione (il mio segno) è infatti proprio di essere testardo e in qualche modo di spuntarla sempre sulle ragioni. Noi scorpioni – o esseri umani – tendiamo a volerci confrontare solo con chi ci è simile, a ricercare la conferma, tant’è che su Facebook e in generale sui social si formano delle bolle di comfort delle idee. Apri il tuo Facebook e pare che tutti votino per il tuo stesso partito: è l’effetto eco chamber, nulla di più. Così nella vita. No, non dobbiamo mai prenderci troppo sul serio. Non contiamo poi molto per nessuno.

Ma tutto questo discorso lunghissimo, passato attraverso l’oroscopo di Rob Brezny e Maria Cristina che lo condivide per dire cosa, COSA esattamente? Il punto è che è salutare per me confrontarmi con una persona tanto diversa come Giulia, e anche bisticciarci. Può essere, come no, che un giorno arriveremo a un punto di rottura definitivo, ma fino ad allora noi potremo aspirare ad essere di stimolo a riflettere su noi stesse l’una per l’altra.

In questi giorni di fresca disoccupazione, che mi devasta in qualunque modo possibile, sono stata parecchio male pensando ad El.. Le voglio un bene che non so neanche spiegarmi, che non posso esprimere e forse sono innamorata di un’idea. Ma una cosa è certa: le voglio bene da quando ho poggiato il cellulare all’orecchio e ho sentito la sua voce squillante, dall’altra parte d’Italia, dal primo istante. Sono distrutta all’idea che tra noi non potrà succedere mai nulla. Mi fa terrore pensare che forse questa disoccupazione coincide con il non sentirla più: perché sì, non si sta facendo sentire e la capisco. Avrà pensato che era giusto. Non so come fare a trattenerla, a dirle che vorrei che rimanesse, non posso, e soprattutto non serve: nessuno rimane contro la sua volontà, né tanto meno se glielo chiedi. Però mi manca così tanto: mi manca non poterle coprire il weekend, lavorare pensando che lei avrà più tempo libero per sé grazie al mio lavoro. Mi faceva stare bene sapere che lei stava bene. E così, eccomi qua, dopo sette mesi ancora con il cuore in panne, senza che non abbia fatto nulla per illudermi. Solo, è successo. Non so come farò a superarla di nuovo. Spero presto, prima che mai.

Perché cazzo Dio mi ha fatta lesbica? Per farmi soffrire in questo modo? Non me la sono cercata, Dio, e guai a chi dice che gay ci si diventa. Se avessi potuto scegliere, perché avrei dovuto scegliere di innamorarmi di donne eterosessuali? Mi vien quasi da ridere dalla disperazione, giuro. Io non vorrei mai più guardare se una persona è lesbica o eterosessuale, vorrei solo che due anime affini potessero in qualche modo innamorarsi l’una dell’altra a prescindere dall’orientamento. Il mio orientamento mi orienta, ma io non mi innamoro di un orientamento bensì di una persona con un sesso: eppure le donne sono quasi tutte eterosessuali o al massimo eterocuriose (che è pure peggio). Io sono una fottuta minoranza. El., non ho nessuna colpa se mi sono innamorata dell’idea che ho di te, se ogni giorno mi sveglio e spero che tu abbia voglia di sentirmi, se penso che io e te insieme potremmo divertirci, anche solo essere amiche! Eppure, eccomi qui a sentirmi in colpa per ciò che provo. Eccomi qui a soffrire come l’ultima dei Mohicani. Eccomi qui a tacere e a sfogarmi sul mio blog anonimo. Non vedo l’ora che mi passi. Non vedo l’ora di tornare a lavorare insieme così avrò la mia dose di te e non romperò più definitivamente i coglioni ai miei cinque iscritti.

Esaurimento.

Sono stanca, sono ufficialmente arrivata all’esaurimento delle mie energie: emotive, mentali e fisiche. Mi spiace di aver messo al corrente di questo blog persone che mi conoscono, perché questo dovrebbe essere solo il mio spazio. Da condividere con alcuni fugaci sconosciuti, voi, lettori che capitate qui casualmente. Vorrei adagiarmi come una larva all’interno di una conca di terra calda, e dormirci serenamente per ore. Vorrei smettere di pensare e di provare questo dolore. Tutto ciò che mi dà gioia é destinato a sparire e traghettare altrove, le mie mani solo maledette, il mio sguardo é maledetto perché dove si posa le cose, semplicemente, inceneriscono. Ho il cuore stanco, disilluso, illuso al tempo stesso. É tutto male, il mondo, siamo su un atomo opaco di spazzatura. Non riesco a salvare niente e nessuna, figuriamoci me stessa. Mi sento già stupida per aver creduto di essere felice anche solo per un giorno.

Liste/2. Le cose che mi rendono triste.

Alert: questo pezzo é la continuazione e fa’ pendant con la lista delle cose che mi rendono felice, che puoi leggere qui.

Scrivo questa lista su invito dell’amica V.. Mi sembrava giusto contrapporre ad una lista di felicità una di tristezza. Questo periodo dell’anno é già positivo di per sé, perciò spero non peserà leggere qualcosa che fa riflettere e funge come da contrappeso. Alla fine, scrivete nei commenti la vostra lista delle cose che vi rendono triste: la pubblicherò sulla mia pagina Facebook Le cartacce di Sally S..

1. Eugenia. La sua faccia tosta. Il fatto che dice di volermi bene ma non sa nemmeno cosa voglia dire volermi bene. Avermi fatto del male e nemmeno il coraggio di chiedermi scusa. Essermi innamorata, senza essere ricambiata, di una persona che si sopravvaluta.

2. Sapere esattamente cosa mi renderebbe felice in amore. Non riuscire a cambiare la realtà nemmeno di un millimetro con il solo mio desiderio.

3. Il contratto che scade il 28 agosto e la mancanza di risposte sul lavoro. Impegnarmi tanto e non vedere nemmeno il minimo rispetto né tantomeno uno straccio di contratto.

4. Mi rende triste la mancanza di sensibilità e di educazione negli altri. Mi intristisce l’egoismo, sentire di volere ancora bene a persone fondamentalmente inutili.

5. Quello che mi ha detto Cecilia al telefono e che mi rimbomba nella mente ogni giorno. É una lotta accettare che me le sono fatte dire senza aprire becco. Forse ho da rinforzare l’autostima perché nessuna dovrebbe potermi dire quelle cose senza un bel vaffanculo.

6. I posti che non ho ancora visitato, le donne che non ho ancora baciato, i desideri che non ho ancora avverato e che restano lì, appesi, a ricordarmi i miei limiti.

7. Non essermi ancora riuscita a comprarmi una macchina perché non sono ancora riuscita a trovare un indeterminato. E questo mi fa sentire terribilmente limitata.

8. I due mesi senza far l’amore con nessuna. Un giorno senza far l’amore é un giorno, non so, é un giorno?

9. La mancanza di compagnia in questo caldo agosto.

10. La mancanza di tempo. Dover lavorare sabato e domenica. Avere ferie solo quando lo dicono loro. Ed essere così bloccata sulla tesi. Quanto mi manca il dolce in questa vita.

11. Le mie fobie, per il Covid, per il restare da sola, per il perdere cose. Il pensiero della morte e del tragico che sovverte tutto. E che mi impedisce di essere serena.

12. Non abitare in Sicilia. Non vedere il mare ogni volta che mi sveglio.

13. Le bollette, le rate condominiali, il conto aperto con il dentista.

14. Le incomprensioni con un’amica a cui voglio bene, ma che non nominerò.

15. Essere ancora qui e non in viaggio perché ho creduto al meteo. E invece c’è un sole bellissimo.

Quinto giorno a Firenze. Il Bacco di Caravaggio e la bella Inge.

Questo potrebbe tranquillamente considerarsi il diario di un non-viaggio in solitaria. Ho combinato un gran “pasticcio” oggi, ma va bene. Evidentemente avevo bisogno di combinarlo. Volevo fare un viaggio dentro me stessa? Eccomi servita. Sapevo di essere una che cambia idea mille volte, nella mia nevroticità, ora lo so meglio. Forse così posso attuare delle strategie per evitare di stare male. Ad esempio, provare a fare una cosa molto semplice: programmare in anticipo. Il fatto che mi riduca all’ultimo é sintomo della mia paura. Facile, no? Sognare, immaginare ma non combinare nulla concretamente. Ho sempre fatto così ed ecco perché mi ritrovo così scissa tra desiderio e realtá. Un’altra cosa che ho imparato da questi giorni é l’importanza della gradualità: evidentemente non sono ancora la persona avventurosa che vorrei essere e necessito di indulgere in una maggiore gradualità nel fare ogni singolo passo. Ma, di gradualità in gradualità, arrivare all’obiettivo finale che potrebbe anche essere del tutto folle. Un’altra cosa di cui ho preso ancora maggiore consapevolezza é che ciò di cui ho bisogno non é solitudine ma semmai l’opposto: é la solitudine che ha provocato l’acuirsi di ogni mia nevrosi, é la solitudine che ha reso il buio ombra, la paura fobia e angoscia. Devo cercare invece, e il più possibile, di stare con gli altri e di fare nuove conoscenze. Non significa che debba succedere adesso perché è agosto e tutti si divertono. Il lavoro mi ha imposto delle ferie ma io ho tempi miei. Il lavoro, é un altro nodo importante. É davvero impensabile che io giri serenamente l’Italia con il dubbio se a settembre lavorerò ancora e con il desiderio di mutare tutto nel mio lavoro. É davvero impensabile che io resti serena con una tesi completamente bloccata e un esame a settembre non preparato. É dunque, oserei dire, fisiologico che io abbia passato le ultime tre notti a sudare tra le lenzuola avvolta dagli incubi. Dovrei essere più comprensiva nei miei confronti: e invece non ho fatto altro che forzarmi, nel nome di un progetto non su mia misura ma su misura di una finzione, di un desiderio.

Sento, nel giorno della mia disfatta di Caporetto, venire un po’ meno la mania del controllo e la paura di viaggiare da sola. Anche se pur per brevissimo tempo mi sono spinta oltre la mia abitudine, come non facevo da tantissimo tempo. Penso che potrei anche ripartire, per brevi gite fuori porta o chissà. Perché non avere fiducia nelle sorprese che la vita può riservarti, senza necessariamente forzare ogni termine? Non é il mare che agogno, ma il dialogo semplice tra me e una natura brulla che mi rispecchi. In Toscana per breve tempo l’ho trovato. Hai una tempesta nel cuore – mi ha detto -. Ma chi mi si può avvicinare in questo momento? Io non glielo augurerei.

Ti amo vita, ti amo. Dammi altre avventure come queste, quante ne posso reggere e sopportare, e strappami dalla monotonia del lavoro, strappami dalla finzione. Dammi, vita, una felicità difficile, sposami con l’amore per te, non farmi dimenticare di te. Ti invito, con molta semplicità e umiltà, a restituirmi il verso eterno e non dimenticarti, nemmeno tu, di me. Fa’ che io comprenda i miei desideri profondi e fa’ che io trovi il coraggio di avere fiducia in loro.

Lago Trasimeno, la sera prima di partire per Firenze

Gli ultimi due giorni sono stati incredibili nella loro follia. Sono riuscita a prenotare un stanza super economica ad Ancona direttamente a Firenze. Sono riuscita poi anche a disdire la mattina successiva, a causa dei ripensamenti. Ci sarà un’altra stagione, un altro tempo per visitare le Marche – mi sono detta.

La notte a Firenze l’ho passata in un bed and breakfast, all’interno di un dormitorio femminile popolato da straniere che parlavano inglese. Per tutto il pomeriggio sono stata all’interno degli Uffizi. Li avevo già visitati ma il mio desiderio era concedermi un visita calma, che parlasse alla mia interiorità. Ho sostato con particolare concentrazione nella sala del Duecento con le Madonne in trono. Durante le medie per breve tempo l’insegnante di disegno si ammaló e fu sostituita da una supplente dallo sguardo mite. Disegnai per lei una Madonna con bambino in lacrime, che avevo tratto da una icona appesa in casa e a cui avevo aggiunto la tristezza. Tutto intorno alla Madonna avevo scritto una poesia (ero affascinata, allora, dalle sperimentazioni futuristiche di commistione del disegno e della parola) e incollato un pezzo strappato di tela. La conservo tuttora. “Ester, hai un dono artistico, un animo sensibile”, mi disse: quanto fa bene all’anima sentirsi dire a quell’età una simile sciocchezza. Il mio dono é la ferita abbandonica, un’ iper sensibilità che mi impedisce una vita “normale”, poggiata su pochi elementi. Tendo all’idealizzazione più che posso e alle Madonne addolorate.

Vista di Ponte Vecchio dagli Uffizi

Maria Assunta disegnata da Giotto spiccava nella sala rispetto alle altre per maestosità, nei panneggi e nella posa. Era connotata da un realismo inedito rispetto ai contemporanei esposti. L’ho poi mentalmente accostata, per le pose scultoree, con il Tondo Doni michelangiolesco veduto qualche sala più avanti. I pezzi forti degli Uffizi sono veramente tantissimi, ma tre soprattutto: la battaglia di San Romano di Paolo Uccello, ingiustamente poco conosciuta ma che esibisce una sperimentazione a livello prospettico e coloristico veramente d’avanguardia, la Venere del Botticelli e il giovane Bacco di Caravaggio (bellissima anche la Medusa). La Venere, anticipata dalla Primavera, é tra le opere più belle che siano mai state dipinte in tutta la storia dell’arte. Quando vedrò la Gioconda saprò dire se vince l’una o l’altra, sempre che una donna debba vincere. Io credo che Botticelli nel dipingere la Venere abbia compiuto uno sforzo artistico, o meglio uno slancio, del tutto inumano. Lo sguardo fascinoso e ammaliante della Venere, sospinta sulla sua conchiglia dalle spume del mare, é capace di commuovere e fissarti senza guardarti nel suo attimo eterno fino a farti cedere il senno in preda alla sindrome di Stendhal. E, ancora più, il sinuoso tortuoso panneggio della Grazia che le si lancia al fianco, nel tentativo di proteggere la sua Bellezza dagli sguardi indiscreti e pieni di malizia. Chi, con il suo occhio, guardi a lungo la Venere é infatti toccato dalla benedizione. In poche parole, Botticelli ha realizzato un capolavoro che non ha eguali.

Il giovane Bacco di Caravaggio, invece, ti accoglie quasi alla fine della visita, come un dessert dopo una cena sostanziosa e appagante, e non senza che tu sia passat* attraverso la dolcissima composizione sculturea del Bacco bambino con Sileno, di Jacopo del Duca. Il Bacco caravaggesco é già impudico: é un giovinetto ebbro, ma che pure conserva sotto gote colorite dal vino una incredibile bellezza. E pare muoversi e invitarti al pasto con lui. La frutta nel cesto sta iniziando a marcire: coglila, sembra dirti, coglila subito. Tengo stretto, sembra dirti, tra le dita il mistero della vita e della morte (ha avvolto infatti tra le mani un nastro nero, dal significato escatologico certamente).

Bacco bambino con Sileno, Jacopo del Duca
Bacco caravaggesco

La sera, dopo gli Uffizi, sono uscita con la bella Inge, una olandese di 19 anni e bollenti spiriti appena conosciuta in ostello. Di lei so solo che ha studiato al classico per poi cambiare indirizzo, ha poi preso la decisione di insegnare ai bambini delle primarie e lasciato di nuovo tutto in favore di un anno sabbatico in giro per il mondo. Ora si trovava lì, con me per puro caso. L’ho portata, io e il mio inglese stentato ma comprensibile, nella migliore trattoria della città. Abbiamo preso due bicchieri di vino a testa e brille della serata abbiamo iniziato a conversare di vita, mistakes and no regrets about anything. Ricordo con piacere che lei mi guardava sorridendo e toccandosi l’orecchio. Perché non l’ho baciata? (e ne avevo voglia) Ma perché é olandese e chissà che altri ha baciato prima se é capace di viaggiare da sola per il mondo e il suo biondo color cenere mi piace soltanto perché é illuminato dalla luna di Firenze di una notte d’agosto. Forse é l’erotismo che mi spinge a peregrinare a voler viaggiare, anche adesso che sono tornata e scrivo. Il desiderio di una donna si mescola e si nasconde, divenendo desiderio di tutto.

Firenze sotto la luna con Inge

Terzo giorno: notte tremenda con attacchi di ansia. Vicina a nuove ripartenze.

Non é ancora, e forse non lo sarà mai, il diario del mio viaggio in solitaria. Sono andata a trovare un’amica che sta a Chianciano Terme e ne ho approfittato per fare un giro dei paesini sui colli d’intorno.

La prima sera abbiamo bevuto una bottiglia quasi intera di un Brunello di Montalcino e cantato. Avevo bisogno di perdere il senno. Avevo desiderio di fare breccia nella mia rigidità interiore. Il secondo giorno, ieri, abbiamo girato in lungo e in largo Montepulciano e Pienza. Ho comprato un paio di scarpe che desideravo di tempo e mangiato i Pici alla briciola. Ma avevo già le prime avvisaglie di un malessere che emergeva da dentro, mio malgrado.

Ricordo con estrema dolcezza la vista dei colli toscani da un terrazza panoramica e ho sentito vicino a me tutti i grandi poeti di questa terra. Il suono del vento tra le orecchie mi ha addolcito il cuore. Eppure quali tenebre selvagge tengono in ostaggio questo cuore sofferente e impaurito.

Il mio scorpione in Marte, a detta di Nadia, in questo periodo potrebbe essersi indebolito. E io lo sento afflosciarsi con il caldo, perdere di potenza atterrito da settembre e dal contratto in scadenza e dalla forte solitudine. Ho paure tremende. La notte mi ha presa d’assalto, cogliendomi alla sprovvista. Ho immaginato me presa delle febbri del Covid, me soffocare e sentivo l’aria tra i polmoni divenire sempre più esiziale, il piede d’un porco di diavolo schiacciarmi il costato, la gola. Mi sono sentita morire, soffocare, venire meno.

Che mi succede? Dopo poco mi sono ritrovata a viaggiare su Google cercando “sintomi dell’agorafobia” e “sindrome della capanna”. Mi sono stretta il cuscino, come se fossero le braccia di Eugenia. Ho tentato con tutte le mie forze di stare bene. Fuggire. Non sento che altro imperativo. Cambiare ancora, come un animale ferito che fugga da se stesso. Tornare all’ovile, tornare bambina tra le braccia di mia madre e mio padre, protetta. Stamattina pianto. E domani lo zaino ancora sulla spalla, alla volta di una solitudine ancora più estrema perché arrendermi non voglio. Ho un buco nel cuore e andró fino in fondo cercando l’amore che ho perso.

Pienza

Primo giorno. Perché ho paura di viaggiare da sola (e perché ho deciso di farlo lo stesso).

Primo giorno. Ore un quarto alle dieci.

Perché è così importante per me questo viaggio? Perché è il primo da sola. Non ho organizzato nulla di preciso, solo vaghi desideri nella mia testa – come sempre aggiungerei. So dove sono diretta oggi, ma non so dove sarò diretta tra una settimana ad esempio.

Questa notte non ho dormito bene né a lungo e questa mattina mi sono svegliata pensando che stavo facendo questo viaggio contro voglia. Ho preparato la valigia tra le sette e le otto di mattina, non ieri sera anche se avevo la giornata libera. Perché? Perché ho paura? Non sono agorafobica, ma fobica sí. Paranoica, più che altro. La mamma saggia mi ha sempre detto “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”: nel mio caso é sempre stato terribilmente vero. So dire, oh sí, so fare discorsi e mettere in fila argomentazioni e a parole sono bravissima. Nel fare, invece, ho sempre incontrato ogni sorta d’inciampo. Partiamo da un constatazione: la paura di sbagliare può essere l’ostacolo più grande ad un vita felice, piena, per una persona come me. Sono pignola e, nella mia pignoleria, nascondo oppure sublimo la mia insicurezza. Sono una lavoratrice instancabile, ma spesso questa mia devozione verso il dovere mi allontana dalle cose piacevoli. Ed eccomi qui, dunque, ad esortare me stessa a viaggiare. Perché ho tanta capacità di guardare il mondo a lungo e meravigliarmi dei luoghi e dell’arte che é giusto che regali a me stessa questa opportunità.

Ore undici e mezza.

L’altra ragione per cui avevo paura di compiere questo viaggio é legata a un sorta di trauma da pandemia. Me ne sono resa conto nelle prime ore di permanenza sull’autobus. Non ero tranquilla. Il pensiero del Covid é emerso all’improvviso quando l’autista ha iniziato a controllarci la temperatura. Da una certa parte invidio i negazionisti: per loro il Covid non esiste e possono stare tranquilli quando escono di casa. Io invece sono immersa in mille paranoie, che non sto a dirvi perché rischierei di farle diventare reali. Però ecco il punto é che, se anche ci sforziamo di “far andare” tutto normalmente, questa non é la normalitá. Che se anche ora usciamo, dobbiamo farlo con mille premure e assumerci dei rischi che prima non esistevano. Proprio per questo ritengo, e non solo perché attualmente lavoro per un compagnia assicurativa, che le assicurazioni da viaggio siano importantissime. Ma cosa succederà a chi non potrà permettersi di tutelarsi adeguatamente rispetto a un mondo con una ricchezza così malamente distribuita e così mutato? Il Covid ci sta allontanando gli uni dagli altri, fisicamente certo, ma rende ancora più evidente il divario sociale e la diseguaglianza. Nel mondo che verrà vorrei si facessero spazio nuove forme di lotta e di protesta. Vorrei che la questione ambientale emergesse, insieme a quella del lavoro e del reddito minimo, come l’unica veramente esiziale. Ma sto uscendo dal seminato.

Viaggiare in questo momento é quindi diventato un atto rischioso rispetto a una società globalizzata che si trova però a dover irrigidire gli spostamenti. Tuttavia, nemmeno restare a casa é la soluzione: a casa ci sentiamo protetti, ma non progrediamo facendo nuove esperienze. La casa é per definizione il luogo della non – esperienza, della stasi, della meditazione verticale. Mi piace ricordare, a questo punto, una frase bellissima di una canzone di Battiato (La polvere del branco): “Ci crediamo liberi, ma siamo prigionieri di case invadenti che ci abitano e ci rendono impotenti”. Direi che ora lo sappiamo bene, dopo quasi tre mesi in casa.

Io, per di più viaggio sola, il che comporta per me affrontare un’altra incredibile paura: ne vale la pena? Vale la pena viaggiare senza poter condividere? Non sarebbe meglio restare al mio posto, in attesa di poter condividere questo viaggio con una persona che amo? E ancora, sarò al sicuro? Saprò affrontare le difficoltà che posti nuovi con volti sconosciuti potranno pormi di fronte? A queste domande devo ancora dare risposta.

Il viaggio in solitaria ti pone di fronte a te e soltanto a te stessa, ai tuoi limiti, fragilità, paure ma anche possibilitá. Non mi interessa cosa pensano gli altri, se é da sfigati o da fighi, ho invece a cuore cosa penso io di me. Non voglio essere quella che ha troppa paura per mettere un piede fuori di casa da sola. Non voglio essere quella che ha bisogno di un’altra persona per fare un bagno al mare o visitare un museo. Non voglio nemmeno che l’essere donna influenzi così pesantemente le mie scelte di vita. Mi sento insicura? Ho paura? Certo. Ma ho bisogno di capire chi sono e cosa sono in grado di fare.

Il dolore mi è passato attraverso ma io sono qui, viva.

Stasera, per la prima volta dopo un po’ di tempo che lavoravo e basta, sono riuscita a guardare dentro me stessa. Ci ho trovato ancora delle emozioni, il passato che bussa alla porta del retrocervello. La mia ferita abbandonica ancora lì. Spesso mi chiedo da dove arrivi, quali eventi l’abbiano determinata così recisa e profonda: ho una madre anaffettiva, con una personalità in ostaggio, disintegrata, svuotata, un padre fin troppo ingombrante, castellano che mi teneva nella sua prigione di cristallo. Questa è stata la mia infanzia, segnata dalla timidezza e da un senso di inferiorità e inadeguatezza rispetto agli altri. Sono venuta su grezza, e mi ha svezzata il confronto duro, doloroso, con la cattiveria. Mi fa paura persino non trovare le parole per descriverlo. Tuttavia, se anche disfunzionale, la mia famiglia non è stata un coacervo di mostruosità e, dopotutto, agli occhi altrui appariva come “la buona famiglia”. I miei genitori mi hanno mandata a scuola, ho preso voti buoni, a volte ottimi a volte discreti e mi sono diplomata al classico, una scuola per la “gente bene”. Ma io mi sentivo sempre diversa, voglio dire. Sono lesbica? – mi chiedevo. Quanto abbia inciso nella percezione di me stessa non potrei dirlo, ma moltissimo se considero che nel mio nido domestico è sempre stato un aspetto nascosto, e celatamente osteggiato. Giusto l’altro mese una donna con cui mi sentivo mi ha chiesto come mai io non abbia tuttora rivelato ai miei genitori la mia omosessualità. Non sapevo che dirle. Mi vergogno di non averlo ancora fatto, ma nessun momento è quello giusto.

Ebbene stasera ho iniziato a riascoltare una canzone di Levante “Questa è l’ultima volta che ti dimentico” e ho risentito di colpo l’emozione bella di quando uscivo con Eugenia. Subito dopo, il grande vuoto, il salto. Io ora mi ritrovo quasi senza accorgermene ad annoiarmi: esco con amici di un tempo e mi annoio, parlano parlano parlano sì, ma di che parlano? Le conversazioni vivide, piene d’arte, di musica e stimolo se ne sono andate da un pezzo. Ho ancora degli amici che riescono a farmi sentire viva, a stimolarmi, in qualche modo. Ma è sempre una percentuale minore rispetto alla pienezza che ho vissuto e di cui ricordo ogni sfaccettatura. Non mento quando dico che con lei era uno stimolo continuo: i nostri cervelli si alimentavano in una sintonia a dir poco perfetta. Di questa perdita il mio cuore ne ha sofferto parecchio. Ho pianto, no non mi vergogno di dirlo che ho pianto ancora. Fra due giorni partirò e, forse, allontanandomi da questa casa, dalla casa in cui ho incontrato così fortemente il dolore della separazione, rinascerò. In quei giorni terribili l’abbandono aveva spazzato via tutto: tutto. Come posso descrivervelo? è come se, all’improvviso, vi dicessero che il giorno è la notte e la notte il giorno, e perdeste ogni punto cardinale. Così ad un certo punto dovetti dire a me stessa: “Eugenia non ti ama più”. Non l’ho accettato che quasi dopo sei mesi. Com’è possibile che una persona che ti amava non ti ami più? Come?

“Non sono abituata ad avere a che fare con persone infelici” – mi disse Cecilia. Ma io sono ancora viva, le risponderei ora. Se perdi l’amore, se ancora ami, felice o infelice diciamo che poco conta: sono viva. Il dolore mi è passato attraverso, ma io sono qui, viva.