Stare bene in due è anche un lavoro di cooperazione, un impegno reciproco e costante nel tempo

Dio, che sabato pesante. Sono giù, di cattivo umore, storto come una banana, frustrata e ho voglia di lamentarmi. Lamentarmi, lamentarmi, lamentarmi. Di dire che non sta andando assolutamente nella direzione giusta. Il mio risentimento verso E. oggi non ha confini. Sono consapevole di aver detto, una settimana fa, di essermene liberata. è un percorso tortuoso… l’altra sera ho avuto un’ondata di risentimento improvvisa mentre mi stavo per addormentare. Mi è salita la temperatura per tutto il corpo (non era febbre), ho stretto la coperta tra i pugni tanto mi faceva male il cuore. Attacco di panico in arrivo. Sos. Un secondo su e poi di nuovo giù, la tua vita non ha senso e ti chiedi se una persona si sia impegnata per “pestarla” o se invece non abbia nemmeno fatto lo sforzo né ci abbia messo l’intenzione. Più me la vedo davanti con la sua indifferenza e più vorrei gridarle “lo vedi, lo vedi come sto?”. Non serve, non serve. Lei è a posto, ha l’anima più candida di un’agnello, il mio sentire non le tange. E mi contraddirò, ne sono consapevole, ma io non voglio che la tocchi né che la riguardi. Non ha avuto alcuna delicatezza nell’andarsene. Non avrei mai fatto lo stesso con lei. Credevo che fossimo destinate a una dimensione tutta nostra, dove non sarebbero mai entrati né dolore né ingiustizia perché dentro c’eravamo noi, che avremmo “gestito” ogni cosa con la sensibilità che ci contraddistingueva (non è l’essere lasciata, ma il come…). Non ho che un’illusione al mondo: che esista almeno una persona nell’universo della quale possiamo fidarci illimitatamente, e che anche quando ci ferisce lo fa senza intenzione e quindi poi ci chiede scusa. Non siamo più abituati, nessuno di noi lo è, ad avere cura delle altre persone. Questa è la verità. Crediamo di essere impermeabili alla società che ci circonda? Non è così. Nella nostra società l’intelligenza emotiva, l’empatia, sono messe all’ultimo posto o strumentalmente utilizzate per fini politici così da divenire quasi un cliché. Come un cliché è che possiamo essere felici da soli. Non è così. La felicità va condivisa altrimenti non ha consistenza. Il messaggio più rivoluzionario della nostra epoca è la condivisione e la persistenza della relazione. Prenderci carico della sofferenza dell’altro significa anche rendere onore alla nostra natura umana. Gridiamolo forte. Stare bene in due non è solo un dono piovuto dal cielo, ma anche un lavoro di cooperazione, un impegno reciproco. Quando mi sento dire queste cose sono orgogliosa di me stessa, e metterle in pratica vorrei che fosse la mia bussola: non vi ripeterò mai abbastanza quanto sia frustrante dover rimanere a casa e far girare in tondo i pensieri. Ma devo sperare nonostante tutto e ascoltare a fondo la mia stessa voce, che è il riflesso di una intima riflessione. Cara E., anche se mi hai ferita come quasi nessuno al mondo (perché con quasi nessuno al mondo ho trovato la felicità, l’amore e l’intesa che c’era con te), non ho perso la speranza nel futuro e nelle altre persone. Mi sto prendendo il tempo di ricucire questa ferita, di cui anche il risentimento è un passaggio, ma non metterò in discussione la mia ricerca verso la felicità. Voglio, semmai, evitare di ripetere gli errori che ho fatto con te. Tu non hai nemmeno la più pallida idea di quanto mi sia costata e di quanto io sia orgogliosa della mia forza, che non è assenza di fragilità ma consapevolezza della mia fragilità, della mia storia. Avrei voluto aprirti i miei labirinti del passato – che ora mi rendono tanto orgogliosa. Avrei voluto raccontarti nel dettaglio del fatto che mio padre mi teneva segregata in casa e del dolore che mi procurava il confronto con i miei coetanei. Avrei voluto farti vedere come ero a dodici, tredici anni, un puffetto che non riusciva nemmeno a mettere fuori il naso dal cappuccio, e dell’incredibile e tortuoso percorso che ho fatto per affrontare la mia timidezza. Avrei voluto dirti che ancora a quattordici anni, quando guardavo qualcuno negli occhi mi si riempivano di lacrime. E ancora, raccontarti che alle medie ero stata presa di mira dai bulli, dei pugni in testa che mi sono presa senza riuscire a difendermi. Del prete, che mi disse che io ero il male davanti a venti persone adulte. Di come era brutto sentirmi diversa e discriminata per il fatto di essere lesbica. Della solitudine che ho provato, di quanto sono state confuse le mie prime esperienze sessuali: degli incontri nelle macchine con persone con 20-30 anni più di me, perché avevo un’ingenuità nei confronti di chiunque mi dedicasse attenzioni che avrebbe anche potuto uccidermi. Almeno, a posteriori io la vedo così. Sono una persona estremamente diversa adesso. Nelle sedi opportune ho avuto modo di srotolare tutto questo e decidere che l’avrei messo nel bagaglio, non certo in vetrina (voglio muovere forza e vitalità, non compassione). Oggi guardo a quel bagaglio e mi dico: sì, mi sei utile e prezioso. Non sei un peso e non mi schiacci ma una pedana che mi aiuti a guardare più in alto. Anche l’esperienza con E., un giorno, mi restituirà il senso che ora è sepolto sotto rabbia e dolore: quindi, in definitiva, le dico …

GRAZIE!

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